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Le trivellazioni in Sicilia: un argomento dimenticato

Dopo il clamore suscitato alcuni mesi fa sulle trivellazioni in Sicilia è calato il silenzio.
Come mai? Eppure è un argomento che dovrebbe interessare molte persone e che vede contrapposti non solo interessi di vario tipo, ma anche persone con diverse idee sul possibile sviluppo economico siciliano, visto che le riserve di petrolio e gas naturale siciliano sarebbero enormi (si parla di almeno il 15% del fabbisogno energetico nazionale, ma secondo alcuni esperti le riserve sono ancora più grandi).
Gli unici che stanno mantenendo un certo livello di guardia, sono i comitati Notriv che il 29 ottobre hanno lanciato una manifestazione nella Val di Noto, che però i media non hanno adeguatamente coperto, a mio avviso.

La posizione dei comitati Notriv, mi sembra che si possa riassumere nel volere chiudere definitivamente tutte le trivellazioni in territorio siciliano, in quanto, affermano che la Sicilia ha già dato molto in termini di distruzione del territorio, inoltre vi sono rischi oggettivi per tali attività che non possono essere annullati sotto una certa soglia. Inoltre affermano che la vocazione della Sicilia non passa dagli Idrocarburi ma dalle sue bellezze, dal clima, dalla Natura e dall’agricoltura di qualità e inoltre le energie rinnovabili sono dietro l’angolo e la loro diffusione capillare può essere fatta con piccoli impianti diffusi sul territorio. In sintesi: la Sicilia ha già dato e troppo a questo settore che si è rivelato terra di conquista e di colonizzazione selvaggia. Questo è il loro pensiero desumibile dal loro sito che ho già linkato. Personalmente credo che, anche se le loro posizioni sono su molti punti condivisibili, bisognerebbe impostare la discussione non su una chiusura totale, ma sulla possibilità, stante alcuni paletti inderogabili, che le trivellazioni si possano fare. Non nascondiamoci che questo potrebbe portare sviluppo economico e lavoro in Sicilia, soprattutto se si andrà verso il federalismo fiscale e la Regione dovrà fare fronte con i suoi pochi soldi, a molte spese.

Quindi cosa fare? Credo che se (e sottolineo SE) trivellazioni devono esserci, allora bisogna necessariamente bonificare la rada di augusta, garantire maggiori royalties (che sono ridicolmente basse) e queste devono essere girate totalmente alla regione sicilia e ai comuni coinvolti, leggi ambientali più stringenti, ed infine chi fa trivellazioni, operazioni riguardanti gasdotti, raffinazione di prodotti petroliferi et similia, DEVE PREVEDERE CONTROLLI OPERATI NON SOLO DAGLI ENTI A CIO’ PREPOSTI, MA ANCHE DALLE ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE E DAI COMITATI NO TRIV. Sono punti ragionevolissimi su cui si dovrebbe innestare non il silenzio assordante di queste settimane, ma una discussione franca e aperta che coinvolga tutti i soggetti.

Trivellazioni petrolifere, ambiente e rigassificatore: tre punti aperti e collegati

Per quanto riguarda le trivellazioni in Sicilia, è già stato detto molto. Quello che mi preme sottolineare è che al momento il sistema delle royalties in Italia è estremamente vantaggioso per le aziende e lo Stato, ma svantaggioso per le zone che subiscono le estrazioni petrolifere. La Sicilia ha immense riserve di idrocarburi, per darvi una idea considerate che si stima che in Sicilia e nei suoi mari ci siano circa 150 miliardi di metri cubi di gas metano da potere estrarre, senza considerare il petrolio. Come è basato il sistema delle royalties? Intanto tutti i permessi per le prospezioni provengono dal Ministero delle Attività Produttive, inoltre se le estrazioni avvengono su terraferma, le royalties sono il 7% del valore di quanto estratto, e nelle decisioni bisogna consultare anche gli enti locali. Se le estrazioni avvengono in mare, le royalties sono solo del 4% e decide tutto il Ministero, tagliando fuori dalle decisioni gli enti locali. Molto spesso le grosse compagnie petrolifere, preferiscono mantenere un basso profilo: creano delle società fittizie con un basso capitale (massimo 10.000 euro) a cui affidare le prospezioni, in modo da attirare il meno possibile, il clamore dei media. Poi, se le prospezioni danno esito positivo, intervengono le grosse società (Shell, ENI, e così via). Riporto quanto scritto in un rapporto da una compagnia petrolifera nordamericana, la Vega Oil a proposito delle royalties. La Vega Oil Spa e’ una azienda detenuta al 100% dalla canadese Cygam Energy Inc (il presidente di Vega Oil e’ Giuseppe Rigo, mentre il presidente, CEO e direttore di Cygam Energy e’ Dario Sodero. Nomi e cognomi italiani, studi fatti in Italia): Italy’s royalty structure is one of the best in the world. For offshore permits, the state royalty on oil production is only 4%, with a provision that no royalties are paid on the first 300,000 barrels of oil production per year, per field. This represents a royalty free production on the first 822 barrels of oil per day, per field. Offshore gas production is subject to a 7% royalty, but the first 1,750 MMcf per year, per field (or approximately 4.8 MMcf per day), are also royalty free. For onshore permits, the state royalty on production of both oil and gas is a maximum of 7%, with a provision that no royalties are paid on yearly production less than 125,000 barrels of oil and 700 MMcf of gas, per field (or approximately 340 bopd and 1.9MMcf/d). The corporate tax is a maximum of 33% and there are no restrictions on repatriation of profits. Tradotto suona come: la struttura delle royalties in Italia e’ una delle migliori al mondo. Per i permessi in mare, le roylatie sono del 4%, con la clausola che non si paga nulla per i primi 300.000 barili di petrolio all’anno, per campo. Questo significa che i primi 822 barili al giorno [51.000 litri], per campo sono gratuiti. Per il gas invece, in mare, c’e’ una royalty del 7%, ma i primi 1750 MMcf [1750 milioni di cubic feet = circa 50 milioni metri cubi] per anno, per campo sono gratuiti. Su terra, le royalty statali sono al 7% e non sono dovute se la produzione annulae e’ meno 125.000 barili di petrolio [circa 19 milioni di litri] e meno di 700 MMcf di gas [19 milioni di metri cubi] per campo. Le tasse sulle societa’ sono al massimo del 33%. Nel resto del mondo, le royalties pagate sono ben più alte. E’ giusto che, se si effettuano degli scavi e delle estrazioni, le royalties siano più alte, e a beneficiarne maggiormente siano gli enti locali dove le strutture sorgono. Sarebbe bene prevedere anche una forma di compensazione per il danno ambientale e per il danno economico derivante dal fatto che le estrazioni di dirocarburi possono deprimere altri settori economici (ad esempio il turismo in primis). Inoltre le perforazioni oggi possono arrivare a profondità molto alte con i relativi rischi a livello sismico, basti considerare che a Castel Termini, l’ENI potrebbe trivellare fino a 6-7000 metri. A questa situazione aggiungiamo il danno ambientale prodotto dai poli petorlchimici realizzati in Sicilia, i metanodotti e i rigassificatori che si vogliono creare. Tutti centri altamente inquinanti che non hanno mai pagato per le bonifiche e che hanno prodotto danni eclatanti alla salute della popolazione. A tal proposito mi limito a segnalare il caso della rada di Augusta, caso eclatante per i risvolti legali che lo hanno accompagnato. Infatti la Corte di Giustizia europea si è pronunciata in merito all’eclatante caso di inquinamento della Rada di Augusta ribadendo il principio che “chi ha inquinato deve pagare”. A molti la decisione della Corte potrà sembrare banale, ma in realtà la triste storia di quello specchio di mare dimostra che non lo è. Che la Rada di Augusta sia inquinata lo si sa da sempre: il polo petrolchimico la avvelena dagli anni cinquanta e, a partire dai primi anni ottanta si sono iniziate a vedere le prime conseguenze drammatiche con un aumento, totalmente fuori dalle statistiche regionali e nazionali, delle malformazioni nei neonati venuti al mondo negli ospedali di quel pezzo di provincia di Siracusa. Questo aumento delle malformazioni creò allarme tra la popolazione e alcune denunce alla Procura della Repubblica che (nel 2001, decisamente troppi anni dopo) iniziò a lavorare a quella che fù chiamata “Operazione Mar Rosso”. Tale operazione è magistralmente sintetizzata nel Dossiere Mercurio e impianti CloroSoda di Legambiente datato 2007: E’ del gennaio 2003 l’indagine giudiziaria più clamorosa sull’area industriale di Priolo, l’“Operazione Mar Rosso” condotta dalla Guardia di Finanza e coordinata dalla Procura di Siracusa. In quell’occasione furono arrestati 17 tra dirigenti e dipendenti dello stabilimento ex Enichem (ora Syndial), tra i quali il precedente e l’allora direttore, l’ex vicedirettore e i responsabili di numerosi settori aziendali, insieme al funzionario della Provincia preposto al controllo della gestione dei rifiuti speciali prodotti nell’area industriale. Il principale capo di imputazione contestato dalla Procura è stato il delitto ambientale previsto dall’articolo 53 bis del Ronchi (oggi art. 260 del Codice ambientale), per aver costituito una «associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio». Il mercurio, secondo l’accusa, veniva scaricato nei tombini delle condotte di raccolta delle acque piovane e da lì finiva in mare. Un’altra via per liberarsi illegalmente dei rifiuti – secondo la Procura – era quella della falsa classificazione e dei falsi certificati di analisi: in questo caso lo smaltimento avveniva in discariche autorizzate, ma non idonee a raccogliere quel genere di rifiuti. L’indagine, coordinata dal Sostituto procuratore della Repubblica Maurizio Musco, è stata resa possibile grazie anche alle intercettazioni telefoniche e ambientali compiute anche all’interno del petrolchimico. Dopo il sequestro giudiziario e un lungo stop l’impianto è ripartito con una sola delle tre linee per essere poi fermato definitivamente nel novembre 2005. Tuttavia, nel frattempo, era partito un altro filone di indagini a carico della Montedison, proprietaria dell’impianto di Cloro Soda che, a dar retta ad alcuni documenti segreti ritrovati all’interno degli archivi della stessa società, dal 1958 al 1980 avrebbe scaricato in mare 500 tonnellate di mercurio. La scoperta bastò a far decadere buona parte delle accuse all’Eni dell’indagine Mar Rosso, in particolare l’associazione a delinquere, l’avvelenamento doloso del mare e del pesce, le lesioni personali per le malformazioni neonatali. Restava solo il traffico illecito dei rifiuti. Tuttavia, nonostante fosse caduta l’accusa delle lesioni per le malformazioni, stranamente la stessa Eni decise di corrispondere alle famiglie dei bambini malformati e alle donne che avevano preferito abortire un rimborso, variabile per gravità della malformazione, tra i 15 mila e un milione di euro. Un caso più unico che raro, una società gravemente accusata, poi prosciolta, che risarcisce le vittime di un inquinamento che non avrebbe prodotto. Non solo la giustizia penale, però, si è occupata del triangolo petrolchimico Priolo-Melilli-Augusta: già da prima delle inchieste la legge 426/98 aveva dichiarato la rada di Priolo-Augusta “Sito di interesse nazionale ai fini di bonifica”. Restava da capire, però, a chi spettava pagare i costi della bonifica. Malformazioni a parte, infatti, l’inquinamento rimane e un po’ tutte le società del petrolchimico siracusano vi hanno contribuito. Lo Stato ha provato a far loro pagare il conto, ma ha trovato un’opposizione granitica basata sul principio che, poichè non è chiaro quanto ogni società ha inquinato, non si può stabilire in che modo spartire gli oneri della bonifica. Il Tar di Catania, infatti, ha più volte dato ragione all’industria: giusto per fare un paio di esempi, con la sentenza n. 1254 del 20 luglio 2007 ha dato ragione a Dow Poliuretani Italia Srl e con sentenza n.1188 del 17 giugno 2008 ha dato ragione a Sasol. Il Ministero per l’Ambiente, allora, aveva trovato un’altra soluzione pur di fare le bonifiche: siccome hanno inquinato tutti, i danni li paghiamo tutti. Cioè lo Stato, il pubblico, i cittadini. Per il solo sito di Priolo-Melilli-Augusta, nell’ottobre 2008, aveva stanziato ben 770 milioni di euro. La richiesta di pronunciamento della Corte di Giustizia europea, fatta dal Tar Sicilia in merito ai ricorsi di Erg Raffinerie Mediterranee, Eni-Polimeri Europa ed Eni-Syndial (analoghi a quelli già citati di Dow e Sasol), è precedente alla decisione del Ministero di far pagare la collettività e, per tanto, non la prende in considerazione. E’ lecito, a questo punto, chiedersi se i tre pronunciamenti della Corte europea rimetteranno in discussione il proposito della Prestigiacomo. Ma, ancor di più, c’è da chiedersi se mai le bonifiche si faranno visto che c’è un ulteriore problema: non è detto che si possano fare. Il dubbio, si dice, sarebbe stato insinuato dalle stesse società che, in origine, avrebbero dovuto pagare per ripulire il fondale della Rada di Augusta. Il problema, detta in soldoni, è che sul fondo c’è tanto di quel mercurio che se si prova a rimuoverlo si rischia di rimetterlo in circolo e spargerlo ancora di più a causa delle correnti. La soluzione, secondo questa teoria, sarebbe più deleteria del male stesso. La cosa molto interessante, che si creda o no all’ipotesi del rimescolamento, è che il Tar ci ha creduto: sempre nella sentenza 1254 del 20 luglio 2007 si legge che la tipologia e le modalità degli interventi come imposti dal Ministero, sarebbero affidati a tecniche non efficienti, non efficaci e/o comunque irrealizzabili e come tali anche pericolosi per l’ambiente e per la salute umana Una bella gatta da pelare visto che si aggiunge un ulteriore problema: il progetto di rigassificatore di Melilli-Priolo. Se si decideranno a farlo, andando contro il parere del Comitato Tecnico Regionale (il secondo, quello espresso dopo il netto no della cittadinanza), Erg e Shell dovranno dragare parte della Rada di Augusta rimettendo in circolo il mercurio ivi sepolto.